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di Toscano M.
Nella Premessa al volume “Essential Guide to Psychedelic Renaissance” (1) Rick Doblin, decano della terapia psichedelica e CEO del Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS) conclude: “Dopo un viaggio molto lungo e strano, gli psichedelici potrebbero infine fare ritorno per rimanere” (op. cit.). La permanenza è, in estrema sintesi, l’aspettativa e lo sforzo cui mirano i convinti assertori odierni di questo approccio: una terapia con psichedelici indovata nel contesto di un percorso psicoterapico che costituisca un nuovo paradigma di cura psichiatrica in grado di promuovere l’affermazione di una psichiatria psichedelica (2)(3). Si tratta di un obiettivo ambizioso che necessariamente dovrà fare i conti con il pesante retaggio del passato che ancora oggi grava su queste sostanze ma che ora appare realizzabile grazie alla mole crescente di studi sperimentali promossi da istituzioni scientifiche di prestigio (ad es. Johns Hopkins University, New York University (NYU), Harbor-UCLA Medical Center, University of New Mexico, Imperial College of London, Psychiatric University Hospital of Zurich, Hospital Sau Pau of Barcelona). Parimenti la progressiva apertura delle Agenzie Regolatorie (FDA ed EMA), lo sviluppo delle neuroscienze, l’impiego di rigorose metodologie di ricerca nonché l’interesse dell’opinione pubblica e dell’industria verso la materia sembrano essere altrettanti elementi di speranza (1,4,5). Queste molecole, bandite negli anni ’70-’80 perché ritenute dotate di un alto potenziale di abuso e prive di un apprezzabile valore medico, col nuovo millennio sono tornate al centro dell’interesse scientifico rimanendo tuttavia in bilico tra chi cautamente frena e prende le distanze dagli errori del passato e chi invece, con toni entusiastici, si spinge in avanti intravedendo un enorme potenziale terapeutico (6).
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